martedì, novembre 15, 2005

Introduzione.


Nei miei pellegrinaggi, ricerche, incontri - che prevedono anche esperienze di tipo conoscitivo, filosofico, religioso - collaboro anche con amici insieme ad i quali affrontio lo studio comune dei cosiddetti Testi Sacri di varie religioni. In questo gruppo ognuno di noi ha una particolare impostazione e ha fatto delle scelte: c'è chi, come me, pratica il Buddismo, chi si interessa di New Age, chi propende per una religiosità più tradizionale, chi si ritiene un 'esoterista'. I padroni di casa, in particolare, sono cabalisti con una buona propensione per la mistica ebraica, pur non identificandosi in nessuna religione in particolare, ma avendo un approccio abbastanza universalistico. Una delle modalità che adottiamo per creare occasioni di meditazione comune è quella di lavorare per un certo periodo su un testo religioso, scrivendo ognuno la propria interpretazione, liberamente e creativamente. Ebbene, qualche mese fa, gli amici che ospitano questo gruppo hanno proposto un Libro della Bibbia come tema di approfondimento: il Libro di Tobia. Personalmente per accostarmi al lavoro su "Tobia" ho adottato una chiave soprattutto psicologico-psicanalitica e antropologica (naturalmente di tipo amatoriale, non da specialista), arrivando a commentare in questo modo i primi 7 capitoli di questo testo, che ne contiene 14. Dopo, per motivi che non sto qui a spiegare, ci siamo fermati senza che io potessi completare le mie riflessioni sul testo. Comunque sia, i miei elaborati li ho scritti e mi sono anche costati un certo impegno: di essi sono abbastanza soddisfatto, avendo ricevuto da questo lavoro - ritengo - una certa ispirazione e una accresciuta comprensione di certe tematiche. Per questo motivo li pubblico qui, su questo Blog... è a ciò che servono i Web-Log, no?

lunedì, novembre 14, 2005

Tobia - capitolo 1


La prima cosa che apprendo ricercando informazioni su questo Libro della Bibbia propostoci dagli amici e guide del nostro gruppo, è il fatto che esso viene considerato testo canonico – cioè parola di Dio – soltanto dal punto di vista cattolico, mentre gli ebrei e i protestanti lo reputano apocrifo. Ciò mi fa riflettere sulla estrema variabilità del senso del sacro e sulla diversità di quello che gli uomini considerano tale a seconda della loro sensibilità, cultura, epoca storica e, fatalmente, anche del grado di evoluzione spirituale. Altra considerazione sul testo – al di là di una certa godibilità del racconto e di una sua sapiente costruzione drammatica – riguarda l’evidente lontananza fra alcuni dei costumi e degli usi in esso proposti come spiritualmente positivi e quella che potrebbe essere reputata una concezione più aperta nell’ambito della ricerca interiore. Per fare un esempio, fra tanti possibili: nel primo capitolo Tobi ritiene gradita a Dio la sua astensione dai cibi dei pagani che, si desume, sono visti come contaminanti. Prescindendo per il momento da una interpretazione simbolica o metaforica, una tale idea non mi pare oggi condivisibile, sembrandomi molto più spirituale non creare separazioni aprioristiche e accettare, come Gesù, di condividere il cibo anche con i cosiddetti peccatori, i socialmente reietti o altri. Anche il Budda seppe andare oltre le distinzioni di classe della società della sua epoca, quella brahmanica, accettando come compagni di ricerca e di vita chiunque fosse sinceramente interessato al cambiamento interiore, compresi i fuoricasta, gli intoccabili. Chi non seguiva il suo stesso cammino era ugualmente considerato con rispetto, benevolenza, compassione, genuina cortesia e, eventualmente, accolto come compagno di viaggio, di dialogo, come essere umano. Naturalmente non è mia intenzione polemizzare con la Bibbia perché, anzi, nutro rispetto per ogni tentativo di indagine sui grandi temi della vita, della morte, del significato dell’esistenza. Quello che mi pare importante sottolineare è, invece, il costante pericolo di dare valore al solo significato letterale dei testi considerati sacri – che invece, spesso, è legato a condizioni culturali e storiche particolari - magari perdendo di vista i contenuti più sostanziali e cadendo così in una concezione integralista. Anche il livello simbolico-metaforico presenta i suoi rischi, in quanto l’archetipo è una medicina sottile che indirizza comunque la mente in una particolare direzione e, in un certo qual modo, può essere condizionante se non si sa ben gestirlo. Inoltre, data l’estrema duttilità mercuriale dei simboli, essi possono riflettere semplicemente le proiezioni dell’interprete che, invece di coglierne gli aspetti trasmutatori, di rinnovamento, tende a ritrovare in essi nient’altro che le sue pre-concezioni. Nel buddismo sono note due interpretazioni dei sutra, quella superficiale e quella profonda. Questa seconda implica la ricerca di un livello di sentire ulteriore, che coinvolge il cuore e la mente, che richiede flessibilità, autoconoscenza e saggezza. Da questo punto di vista, anzi, i sutra vengono letti e recitati ritualmente per confutarne il senso superficiale e realizzarne quello profondo: in altre parole si cerca di oltrepassare i nostri limiti di comprensione, le nostre chiusure, per toccare qualcosa di sottostante, connesso con la vita.
Detto questo, ritengo che il testo in esame – sia pure con linguaggio e concettualizzazioni arcaiche -intenda descrivere in questo primo capitolo l’onestà e il senso della giustizia di Tobi, che lo differenziano dagli appartenenti alla sua stessa tribù. La sua pratica religiosa non si limita alla preghiera o alla speculazione filosofica e teologica, bensì è sostenuta e completata dall’azione concreta, volta all’aiuto degli altri e all’osservanza della Legge divina non soltanto nelle grandi dichiarazioni d’intenti, ma anche nei piccoli particolari della vita quotidiana. Tobi segue la propria coscienza, per così dire, anche a costo di rischiare personalmente le critiche altrui o addirittura l’opposizione da parte dell’autorità. Interessante è la specifica delle tre decime, offerte all’altare, ai sacerdoti, ai poveri. In effetti, riportando il concetto a noi, qualsiasi ricerca interiore è un’offerta di sé, in primo luogo del proprio tempo e delle proprie energie, all’altare – cioè al divino, alla buddità interiore. Non è detto che sia facile, comunque, dedicare del tempo e dello spazio nella propria giornata alla preghiera e alla meditazione, cioè a noi stessi nel senso più alto, presi come siamo dalle pur legittime faccende cui dobbiamo attendere. Allo stesso modo l’offerta di sé andrebbe fatta anche alla comunità di ricercatori, i ‘sacerdoti’ del testo, cioè quelli con i quali si condividono certi interessi o una certa fede, per stare insieme, dialogare, costruire una comunità positiva e libera, sostenersi vicendevolmente. Infine non bisognerebbe disdegnare la decima ai ‘poveri’, cioè a chiunque, agli sconosciuti, a chi ha bisogno di una qualche forma di considerazione o di aiuto, insomma agli altri, quelli con i quali non necessariamente siamo legati da qualsivoglia interesse, ma in virtù di un legame universale che ci unisce tutti. Altro particolare importante del testo: Tobi ha molta cura nel seppellire i morti, rischiando per questo anche la sua incolumità personale. Forse i più antichi rituali religiosi di cui ci sono rimaste tracce sono proprio quelli funebri: l’archeologia ha scoperto tracce di offerte floreali nei pressi di sepolture preistoriche. Nel buddismo si dichiara esplicitamente che ogni spinta religiosa e conoscitiva nasce proprio da considerazioni sulla morte e dalla sensazione della sua sacralità. Da questo punto di vista Tobi sostituisce l’incuria verso l’eternità nell’uomo con una irriducibile compassione verso chi si trova a fronteggiare il mistero principale dell’esistenza, il trapasso. Lo fa senza angustiarsi più di tanto dei rovesci di fortuna, delle persecuzioni, dei periodi di benessere: va avanti per la sua strada. Al contempo si preoccupa di lasciare in custodia presso un suo parente una ingente somma in argento. Al di là delle considerazioni pratiche, più o meno condivisibili, del ‘capitalizzare’ in banca dei beni, vedrei in questa scelta di Tobi un paio di importanti concetti: il primo è senz’altro la prudenza, l’accortezza con la quale ogni cosa viene da lui trattata cercando di rintracciarne il valore, preoccupandosi non solo per il presente ma anche per il futuro. Il secondo concetto, credo più importante, è che l’episodio può essere una metafora profonda sull’atteggiamento del protagonista: egli, con la sua religiosità, la sua cura, il rispetto, le ‘decime’, mette in realtà da parte – secondo la Legge karmica di causa ed effetto – un capitale positivo, apportatore di benefici, di coscienza, che non potrà mai essergli alienato e che, al momento opportuno, gli tornerà estremamente utile. Come dire che tutte le nostre azioni, pensieri, parole, indirizzano il nostro destino. Le cause generate rimangono depositate in maniera latente nella profondità della nostra vita per un certo tempo, ma al momento opportuno emergeranno e si manifesteranno visibilmente.

Tobia - capitolo 2


La lettura del secondo capitolo del Libro di Tobia mi sollecita alcune considerazioni collegate con la psicanalisi freudiana. Capisco che porre in relazione la psicologia con l’aspetto religioso del testo, col senso del sacro o con una possibile interpretazione esoterica non è del tutto corretto, soprattutto perché i concetti analitici sono riduttivi e, probabilmente, descrivono soltanto una parte della realtà - quella psicologica appunto - non spiegando necessariamente anche quella spirituale. Tuttavia Freud - oltre ad essere uno scienziato che si dichiarava ateo - era ebreo, e sono personalmente intrigato dall’idea che nelle sue ricerche abbia messo molto dello spirito ebraico e che abbia consciamente o inconsciamente – è il caso di dirlo – affrontato i temi profondi del misticismo del suo popolo. Non è certo facile riassumere in poche parole il lavoro di Freud sulla religione e neanche mi proverò a farlo. Vorrei soltanto illustrare ciò che ho capito di una parte di esso: mi riferisco al mito creato dal fondatore della psicanalisi, quello dell’’orda selvaggia’. Freud pensava di aver trovato un livello profondo, primordiale della storia psichica dell’uomo, quasi a riproporre nell’ambito della sua ricerca teorie analoghe a quelle evolutive di Charles Darwin. Secondo lui durante la crescita della coscienza umana dev’esserci stato un momento in cui la società di tipo tribale era sottomessa ad un capo, ad un progenitore rispetto al quale nessuno poteva rivendicare la propria autonomia – particolarmente i suoi stessi figli in quanto maschi sessualmente rivali. Tuttavia lo sviluppo psichico – ipotizza Freud – è passato attraverso una rivoluzione quando i figli si sono ribellati e, uccidendo il padre, hanno permesso la liberazione individuale di forze, idee, comportamenti differenziati in seno al gruppo dell’’orda selvaggia’. Nonostante questo affrancamento dall’autorità, però, l’episodio dell’uccisione del padre-atavico sarebbe rimasto nell’uomo come un fatto doloroso, problematico, sotto certi aspetti fortemente conflittuale, tale da essere rimosso e relegato nell’inconscio. Questo contenuto rimosso, secondo Freud, affiora nella religione, generando immagini della divinità – Dio, Padre, Signore – atte a sostituire la figura del progenitore, insieme al timore e al desiderio di blandire la schiacciante responsabilità dell’uccisione attraverso riti, preghiere, comportamenti etici ed altro. In parole povere alla base della religione ci sarebbe un insopprimibile senso di colpa, rispetto al quale gli uomini avrebbero ancora oggi un atteggiamento infantile o comunque non consapevole. Fatte tutte le riserve del caso, cioè le possibili e legittime contestazioni a questa interpretazione troppo legata all’epoca di Freud e ad una cultura occidentale da un lato d’impronta materialista e dall’altro giudaico-cristiana, personalmente mi sembra che Tobi, come viene descritto in questo secondo capitolo, possa in qualche modo ricordarla: infatti la sua pietas, per certi versi così estrema, desta dubbi perfino nella sua stessa moglie e viene da chiedersi da cosa possa originare. E’ davvero necessario per lo sviluppo di un sincero spirito religioso quella specie di dolorosa ritualità che spinge a inumare i corpi dei defunti della propria etnia (non necessariamente gli altri) a qualsiasi costo e in ogni situazione? Che porta a non credere di poter ricevere in dono un capretto, forse reputando sé stesso o la propria consorte indegni? Che porta ad una meticolosa valutazione del dare, del ricevere, del donare, del partecipare, come se si temesse continuamente di infrangere la legge divina o di diventare impuri per una qualche forma di contaminazione, oppure come se si volesse assiduamente cercare di espiare le colpe degli avi? Il legame edipico primario, inoltre, cioè i legami di sangue, familiari, non sono per Tobi mai sciolti o allentati, non evolvono, ma soltanto nei parenti cerca aiuto, sostegno, espiazione, comprensione, soltanto con essi può sopportare il carico delle persecuzioni, la colpa, l’esilio, la separazione e tutte le altre angosce di cui è satura l’esistenza. La mia ipotesi sulla causa della cecità di Tobi, dunque, è questa: nonostante la correttezza e la sua caparbietà talvolta coraggiosa, onesta, egli non vede al di là della rigida osservanza della norma. Dico questo perché non posso credere che le prove cui la vita ci sottopone, le difficoltà, accadano per caso oppure per una sorta di arbitrio della divinità, bensì abbiano lo scopo preciso di aprire la mente, il cuore, di aiutarci a crescere: quanto accade al nostro protagonista ha un senso preciso. Anche prendendo su di sé il carico delle colpe che ci derivano dal passato – quelle delle nostre trascorse esistenze, per Legge karmica – non è del tutto giustificato un atteggiamento che permane costantemente nell’oppressione, nella contrizione: Paramahansa Yogananda diceva che rispetto alla divinità non dobbiamo essere come dei mendicanti, bensì come dei principi, perché siamo ‘figli di Dio’. Nel buddismo c’è la pratica del sange, cioè del pentimento. Consiste nel rendersi conto, nel prendere coscienza, di aver oscurato in qualche modo la luce interiore, il principio d’Illuminazione che è presente nella nostra vita, impoverendo la nostra esistenza e costringendola in una situazione di sofferenza – che può anche essere legata alla nostra responsabilità verso gli altri. Dopo aver chiesto scusa a sé stessi, al nostro ‘vero io’, agli altri e alla vita, si riparte, si ricomincia cercando di eliminare l’errore che – comunque – già comincia a dissolversi proprio perché se ne è presa consapevolezza. Sange è un momento di riappropriazione della speranza, in cui ci si sente alleggeriti anche se ci si assume un faticoso impegno di auto-riforma, in cui si percepisce la libertà e la bellezza dell’esistenza. Forse è questo, per lo meno a mio modo di vedere, che manca a Tobi: la felicità. La pratica religiosa non è soltanto pesantezza, colpa, pentimento, espiazione. Essenzialmente è gioia di vivere. Possono esserci momenti difficili, ma senza quella gioia manca l’essenza della nostra comunicazione con il tutto, con l’universo, con Dio. Un punto centrale di questo capitolo è rappresentato dalla festività delle sette settimane: 7x7, un numero bellissimo, dai grandi e molteplici significati esoterici. Eppure questa celebrazione, presumibilmente un culmine di luce dopo la Pasqua di liberazione, fallisce. Manca qualcosa. Si cade nell’oscurità. E qui sta la cecità di Tobi.

Tobia - capitolo 3


Questo terzo capitolo è forse il nucleo principale di tutta la vicenda raccontata, offrendole soluzione e anticipandone i risultati finali: Tobi e Sara pregano il Signore di morire e questo rappresenterà la loro salvezza, perché il Signore manderà loro una guida angelica che farà guarire dalla cecità l’uno e condurrà al matrimonio l’altra. Tobi dice nella sua invocazione “non punirmi per i miei peccati e per gli errori miei e dei miei padri”, dopo di che invoca la morte che, a questo punto, sembrerebbe quasi una fuga. E’ come se egli dicesse (e anche Sarà farà un discorso analogo): “io sono nel giusto, tutta la mia vita è dedita all’osservanza dei comandamenti divini, ma nessuno lo capisce, sia gli altri che mi circondano che gli eventi, il destino, non fanno che deridermi o ferirmi; quindi basta, non voglio più essere ‘punito’, voglio andarmene da questo mondo”. Si tratta di sentimenti comprensibilissimi, che più o meno proviamo tutti quando stiamo male. Il fatto è che, a mio parere, gli eventi negativi descritti nel testo dipendono dalla Legge del Karma, e questa – anche quando apparentemente si presenta come punitiva – non è mai fine a sé stessa, ma ponendoci di fronte alla logica conseguenza delle nostre azioni (anche di un remoto passato di cui non abbiamo il ricordo, ma di cui conserviamo gli esiti coscienziali) ci spinge ad evolvere e imparare. Quindi, in un certo senso, affrontare le cose, elaborarle, forse anche rifiutarle e combatterle - ma sempre cercando di meditare su sé stessi per conoscersi e cambiare – ci fa bene, anzi è proprio quello che ci serve. Bisogna anche ammettere che, a volte, nel momento della grande sofferenza, dell’oscurità, quando si tocca il fondo, è proprio in quell’istante che le cose cominciano a modificarsi. Nel buddismo si dice che ‘più buia è la notte più vicina è l’alba’, perché c’è sempre la possibilità di rivoluzionare il proprio destino in qualsiasi situazione, sviluppando una nuova visione delle cose. Viene anche detto che per potersi rialzare bisogna appoggiarsi al suolo, quindi fondare su ciò che sta in basso, che in questo caso possono essere anche gli stati d’animo di disperazione. Quando la vita ci sottopone a difficili prove, a momenti bui, nel nostro intimo accadono molte cose, e la maggior parte di queste sono connotate da insicurezza, paura, rabbia impotente, sentimenti autodistruttivi. In questi casi, che il buddismo qualifica come ‘jigoku’ - cioè ‘inferno’, esiste sempre la possibilità di determinarsi in modo diverso, perché anche lì è presente e vicino il mondo dell’Illuminazione: tutti i ‘mondi’ (cioè gli stati di coscienza) comunicano, si compenetrano profondamente.

Nel cercare, comunque, di comprendere questo Libro di Tobia, non posso fare a meno di continuare nel ragionamento psicanalitico che per me – a quanto pare – continua a rappresentare una chiave di lettura di questo testo, pur non essendo io particolarmente versato in questa disciplina ma attingendo ad essa da profano. Ritornando, dunque, al concetto dell’orda selvaggia e del capo totemico cui ho già fatto riferimento nel commento al secondo capitolo di Tobia, dobbiamo ricordare che, secondo Freud, i rituali religiosi nascondono in forma inconscia il senso di colpa per l’uccisione del padre da parte dei figli maschi, che nell’evoluzione tribale avevano la necessità di affrancarsi dallo strapotere genitoriale per una indipendenza sessuale e ‘politica’. L’idea che il fondatore della psicanalisi ha in mente è quella di una società primitiva affine a quella di certi primati, per esempio le scimmie, mediata dalle scienze naturali e antropologiche. In quel tipo di società il maschio dominante è a capo di un harem di individui di sesso femminile e impedisce relazioni sessuali endogamiche – cioè all’interno del clan - da parte dei figli maschi, i quali sono così sottoposti ad una forma di castrazione degli istinti, a meno di non abbandonare il gruppo oppure di ribellarsi al capostipite, cosa che sarebbe poi effettivamente avvenuta nel corso dell’evoluzione tribale. Il senso di colpa per questo evento ancestrale, inconscio e alla base del sacro (che Freud considera uno sviluppo ulteriore del tabù, cioè dei divieti profondi e originari del Super-io), condurrebbe ad una serie di tentativi di espiazione: restrizioni, osservanze religiose, paura di essere contaminati, che ben potrebbero conciliarsi con il comportamento di Tobi già descritto e soprattutto con la sua forte esigenza di seppellire gli israeliti morti (cioè gli appartenenti al clan, alla famiglia edipica), potendosi leggere in essa – sempre secondo le concettualizzazioni freudiane – la paura e l’ambivalenza di sentimenti verso il genitore primordiale assassinato e cioè (considerando gli spostamenti e le sublimazioni del caso) verso ‘Dio’. Tale colpa atavica non sarebbe soltanto quella del singolo componente della tribù, bensì quella di tutti i suoi membri e soprattutto degli antenati, “gli errori miei e dei miei padri”. Nonostante i tentativi di espiazione, proprio quando cerca di seppellire una persona defunta, Tobi rimane cieco per accidente. Ricordiamo che Freud, interpretando il mito di Edipo, considera l’accecamento come una forma di castrazione punitiva. Tutti gli accorgimenti rituali di Tobi, dunque, non hanno allontanato la punizione, non hanno efficacemente espiato le colpe, come gli fa notare la moglie. Questo lo getta nella disperazione e nel contempo genera la soluzione, in questa chiave interpretativa ora finalmente comprensibile. Il nostro protagonista, infatti, non potendo più reggere la tensione irrisolta della colpa, si rivolge al ‘Signore’ implorando di non essere punito per i suoi peccati e per quelli dei suoi avi, ma – affidandosi all’autorità di Dio, il genitore atavico – si offre come vittima sacrificale: è disposto a morire piuttosto che continuare a subire il giudizio negativo e gli insulti - in apparenza degli altri, ma in maniera più nascosta e inconscia di Dio stesso. Il suo, insomma, è un atto di sottomissione completo e un tentativo di riparazione totale della colpa originaria, con l’offerta della vita al capostipite mitico. Percorso analogo quello di Sara, sulla quale parimenti pesa – come individuo di sesso femminile - la figura archetipica del ‘maschio dominante’, rispetto al quale ogni altro maschio non ha diritti ed è un rivale che dev’essere eliminato: lei, scegliendo o accettando come mariti uomini diversi, li conduce implicitamente alla morte, all’assassinio da parte di Asmodeo – demone che incarna la parte violenta, carica di sentimenti ostili, del genitore primordiale. Quest’ultimo, infatti, viene separato psicologicamente in due figure ben distinte, Dio e il demonio, l’una rappresentante la giustizia e la bontà assolute (con il conseguente senso di colpa), l’altra accogliendo la proiezione di tutti i sentimenti negativi e aggressivi che – pur presenti - sarebbero inaccettabili se riferiti alla prima. Anche Sara risolve la situazione nel momento in cui, turbata dalle accuse altrui, comprende di non poter uscire dalla ‘colpevolezza’ altrimenti che con un atto di sottomissione e con l’offerta della vita, ma a discrezione di Dio. Essendo una donna, infatti, il darsi la morte da sola – com’è tentata di fare - rappresenterebbe comunque un atto di ribellione, di indebita autonomia. La sua unica scelta è l’abbandono alla volontà superiore. Ci si potrebbe chiedere, a questo punto, quanto questi atteggiamenti di sottomissione totale possano essere interpretabili come regressioni all’infanzia, dove l’autorità genitoriale viene percepita come onnipotente, con la conseguente abdicazione della propria coscienza di adulti, cioè di individui consapevoli di sé e responsabili del proprio destino.

Tutto questo discorso, uscendo dalla riduzione psicanalitica (o pseudo tale!) del testo alle sole forze pulsionali e subconscie, può forse essere meglio espresso con questo pensiero: nel nostro tentativo di affrontare la vita e le sue prove spesso resistiamo al messaggio nascosto degli eventi, al loro insegnamento, cercando di piegarli alla nostra mentalità. Quando non ci riusciamo cadiamo nello sconforto e ci abbandoniamo all’autocompassione e all’autodistruttività, che non sono troppo lontane l’una dall’altra. In questi casi la fede, la preghiera, la meditazione, possono essere di grande aiuto: esse consistono soprattutto nel comprendere che non possiamo affrontare le cose con le sole capacità della nostra mente, intesa come ‘piccolo io’, ma che dentro di noi abbiamo un potenziale molto più vasto al quale è possibile attingere. E’ un modo di ricollegarci – proprio nel senso di ripristinare il legame fra micro e macrocosmo, cioè religio, religione – con la Legge Meravigliosa che costituisce il segreto mistero della vita, morendo a quelle che sono le strategie limitate della mente e trovando in noi stessi un abbandono, una dedizione che significano sostanzialmente trasformazione, nonché attiva riappropriazione della propria individualità ad un livello più cosciente e integrato nel tutto universale.

Tobia - capitolo 4


In questo capitolo Tobi, ricordando di aver chiesto al Signore di poter morire, si rende conto che – in vista dell’imminente probabile trapasso – è suo preciso dovere preoccuparsi dell’eredità da lasciare al suo successore come guida della famiglia, il figlio Tobia. Tale eredità si compone sia di beni materiali, i valori affidati a Gabael, che di precetti e norme etiche volte alla preservazione dell’integrità personale e del clan: dalle regole relative alla cura – anche funebre - dei genitori, al servizio da rendere al Signore, al matrimonio, ai rapporti fra datore di lavoro e subordinato, alle elemosine, ad altre cautele di tipo etico. Questa trasmissione di norme è particolarmente collegata con l’identità ‘tribale’ – dove la famiglia sembra essere soltanto una specifica dell’appartenenza collettiva al clan e l’individuo soltanto un componente della famiglia – con la totale dipendenza da quello che può essere definito l’antenato mitico, psicologicamente identificabile con il totem, cioè ‘il Signore’. Dal punto di vista analitico, secondo me, riveste un notevole interesse il complesso di regole matrimoniali cui Tobi accenna, che sono qui strettamente endogamiche: il matrimonio, cioè, dev’essere stabilito sempre all’interno del gruppo, con l’esclusione di ogni tipo di estraneità. Questo è un punto controverso, in quanto è incerto – anche in base alle ricerche condotte da Freud – se le comunità tribali prediligano questo tipo di unione oppure siano più orientate verso l’esogamìa, come invece ritiene il fondatore della psicanalisi. Secondo lui la scelta della sposa - o dello sposo - in popolazioni diverse da quella di appartenenza è connessa con la sublimazione degli impulsi incestuosi, e rappresenterebbe un passo avanti nella storia della sviluppo della individualità consapevole e indipendente dal gruppo. L’atteggiamento della ‘tribù di Neftali’ nell’epoca descritta dal testo, quindi, apparterrebbe ad una fase precedente, in cui prevarebbe l’impulso primordiale all’unione con i consanguinei. Al caso in esame, naturalmente, possono attribuirsi motivazioni di ordine pratico e logico: si tratta di gruppi comunitari perseguitati, esiliati, per i quali non è semplice né consigliabile accoppiarsi con i non appartenenti all’etnia originaria, primariamente per necessità di sopravvivenza e di protezione. Tuttavia, al di là di questo tipo di spiegazioni, non si può non riconoscere in questa tendenza endogamica una componente narcisistica dove l’io non è ancora ben differenziato individualmente, ma si riconnette all’identità collettiva: cosa confermata anche dalle restrizioni alimentari e comportamentali presenti nella storia di Tobi, sempre volte a ridurre al minimo i contatti e le situazioni debitorie o di qualsiasi compartecipazione con gli estranei, con i pagani, al fine di riconfermare continuamente l’appartenenza al gruppo sociale. Anche il senso di colpa totemico - che per Freud è in relazione con il peccato originale dell’assassinio del padre arcaico – è una sorta di collante di questa società primitiva, che contribuisce a mantenerla coesa e ben differenziata da altri gruppi etnici, conferendole identità, norme, riconoscibilità, sicurezza. L’identificazione collettiva, in realtà, sopravvive ancora nella nostra società, di solito nei comportamenti distruttivi di massa: nella fusione affettiva di una collettività – per la gran parte facente leva su meccanismi regressivi della coscienza – con un simbolo, un capo, una divinità, un partito di qualsiasi genere, insomma un totem – si perdono (anche solo momentaneamente) quelle che sono le più evolute acquisizioni della consapevolezza individuale, dell’etica, della ragione, del rispetto per la diversità, della libertà. In linea generale, dunque, possiamo riscontrare nella struttura sociale del Libro di Tobia sia un residuo della cultura matriarcale consistente nei citati impulsi endogamici - quindi appartenenti ad una fase narcisistica connotata da forte legame edipico con la madre (la collettività) - sia una componente patriarcale, dove la figura mitica del padre conferisce, rinforzata dal senso di colpa, regole, struttura, proibizioni, osservanze - espresse ritualmente secondo Freud anche nella circoncisione ebraica, cioè in una castrazione simbolica ad opera del Super-io. La ‘castrazione’, comunque, sarebbe ampiamente ripagata dall’appartenenza all’identità del gruppo e dall’’approvazione’ della temuta figura del padre totemico.

Queste considerazioni di tendenza psicanalitica sono opera di un ‘profano’ come me in questa disciplina: possono contenere errori, imperfezioni interpretative e non rispettare il rigore della dottrina freudiana cui si ispirano; tuttavia Freud stesso contribuì ad applicare quello che lui considerava un sistema d’indagine medico e scientifico al di fuori del ristretto ambito terapeutico, scrivendo saggi su argomenti antropologici, sociali, filosofici, religiosi e culturali, e aprendo la via alla divulgazione delle sue idee e alla loro applicazione ai campi più disparati. Non mi sento, dunque, ‘in colpa’ rispetto al padre della psicanalisi!

Da ciò, anzi, ricavo ulteriori considerazioni su Tobi e Tobia: nel buddismo esiste la cosiddetta trasmissione della Legge, dove un maestro lascia in eredità al discepolo il suo corpus dottrinario che, nella fattispecie di questa religione, non è soltanto un insieme teorico, ma soprattutto il risultato delle proprie sperimentazioni; si dice infatti che i Sutra (insegnamenti) vadano letti con la propria vita, cioè non operando una distinzione fra conoscenza ed esperienza concreta, ma dedicando ad essi tutto il proprio essere – senza arbitrarie separazioni fra mente e corpo. Un maestro, in altre parole, non è chi possiede la sapienza, bensì chi vive concretamente l’insegnamento. Tobi - tralasciando le considerazioni analitiche già espresse, che pure hanno secondo me la loro importanza - mi sembra sostanzialmente in linea con questo concetto: nell’episodio in esame egli svolge la funzione del maestro, suggerendo a Tobia l’essenza della propria esperienza e della propria concreta comprensione dell’esistenza. Per questo motivo i suoi consigli risultano pratici, funzionali alla vita quotidiana, ai relativi doveri e particolarità, e indicano la saggezza indispensabile nell’affrontarne le situazioni. Soprattutto Tobi collega continuamente le strategie positive, sociali, pragmatiche – certamente indispensabili, ma anche limitate - con l’elemento spirituale, divino, con la Legge Mistica che sta in profondità rispetto al mondo transitorio dei fenomeni e delle contingenze, e che ne costituisce il fondamento essenziale per la vera riuscita e la vera felicità.
L’insegnamento dei maestri, però, non dovrebbe essere pedissequamente seguito dai discepoli, magari privilegiandone la lettera e l’aspetto legalistico, oserei dire burocratico, e perdendone così di vista il senso liberatorio, volto allo sviluppo di una individualità indipendente e capace - come si afferma nel buddismo - di alzarsi da sola. C’è un discorso del Buddha Shakyamuni molto illuminante a questo proposito. E’ contenuto nell’antico canone Pali (Anguttara Nikaya III, vii, 65, Kesamutti Sutta, iii, IX) e dice:

“Non credete a tutto ciò che si dice e a tutto ciò che è stato tramandato dalle generazioni passate, e neppure a ciò che è opinione corrente o che dicono i testi sacri. Non accettate qualcosa come vera semplicemente basandovi su una deduzione o su un’illazione, sull’apparenza esteriore o sulla parzialità di una certa prospettiva, o in base alla sua plausibilità o perché il vostro maestro vi dice che è così. Ma quando voi, da soli, direttamente riconoscete: ‘Questi principi non sono benefici, sono biasimevoli, condannati dai saggi, se adottati e messi in pratica producono danno e sofferenza’, allora li dovete abbandonare. E quando da soli, direttamente, riconoscete: ‘Questi principi sono benefici, non biasimevoli, lodati dai saggi, se adottati e messi in pratica conducono al benessere e alla felicità’, allora li dovete accettare e mettere in pratica.”

Tobia - capitolo 5


L’elemento determinante della vicenda del capitolo 5 - come anche del prosieguo della storia di Tobia - è l’intervento dell’angelo Raffaele, inviato dal Signore in risposta alle preghiere di Tobi e Sara. A ben vedere questo intervento presenta alcuni caratteri particolari, di eccezionalità, che sembrano quasi indicare un fondo mitico e culturale diverso da quello su cui il racconto si è basato fino a questo punto. Anzi, proprio queste diversità fanno sì che il Libro di Tobia non sia accettato unanimemente come testo sacro dalle correnti religiose facenti riferimento alla Bibbia: ad esempio per il fatto che l’angelo si cela sotto le ‘mentite’ spoglie di un lontano parente di Tobi, Azarìa, quindi mascherandosi a somiglianza delle divinità greche e orientali. Oppure, come descritto nei capitoli seguenti, perché egli suggerirà - al fine di scacciare il demonio Asmodeo - un rito ‘magico’ con tutta l’apparenza di un cerimoniale profano. In effetti da qui in poi il racconto assume il tono della favola o del mito, ed è particolarmente correlabile con quelle storie dove c’è un eroe, un viaggio iniziatico, l’uccisione di un animale pericoloso, l’acquisizione di doni, oggetti o attributi magici, la sconfitta di un demone, la liberazione di una principessa, il ritrovamento o la conquista di un tesoro: tutti elementi che sono effettivamente presenti nei capitoli successivi. Potremmo ritenere la psicologia freudiana meno adatta di quella junghiana alla decifrazione di tutto ciò, essendo quest’ultima maggiormente volta a rintracciare nei miti i processi trasformativi e teleologici, cioè connessi con quello che Jung chiama il processo di individuazione. Tuttavia trattandosi di una storia ebraica non tralascerei tanto facilmente l’impostazione di Freud – ebreo anche lui – che mi sembra, come ho già puntualizzato in precedenza, molto adatta a comprenderne i significati riposti. Anche se alcuni elementi narrativi fossero spuri rispetto alla tradizionale mentalità israelita, comunque sono stati assorbiti in questo racconto e quindi possono rientrarvi a pieno titolo ai fini dell’interpretazione. Da questo punto di vista dobbiamo ancora una volta notare come la figura del padre, proprio freudianamente intesa, sia qui particolarmente evidente: il senso di colpa atavico e la ricerca dell’approvazione dell’antenato paterno sublimato nella figura divina sono rilevanti nel racconto, come anche la repressione dell’ostilità verso di lui, supportata dalla proiezione dei sentimenti inaccettabili sul demonio. Una siffatta mentalità, che oltretutto si conserva chiusa rispetto ad altre popolazioni e culture perché escluse a priori dalla discendenza totemica di riferimento, potrebbe in breve tempo fossilizzarsi, perdere quegli elementi di vitalità connessi all’apertura, lo scambio, allo scontro vitale con ciò che è esterno alla compagine tribale: un organismo troppo ordinato, difeso, strutturato, senza contraddizioni né al suo interno né all’esterno, perfettamente aderente alla norma stabilita, rischia la cristallizzazione e la morte. La vita, l’élan vital, si presenta invece come disordine creativo, oltrepassamento del già acquisito, interruzione dei cicli ripetitivi e resistenti al cambiamento. Parafrasando Henri Bergson, filosofo ebreo contemporaneo di Sigmund Freud, esistono una società chiusa e una società aperta, una morale chiusa fatta di obblighi e divieti e una morale aperta il cui scopo principale è il sostegno e la crescita degli individui, una religione statica al servizio della coesione del gruppo e una religione dinamica come quella dei mistici. In effetti ciò che Freud chiama l’impulso di morte – frutto delle mature concettualizzazioni del grande psicanalista - trova manifestazione palese in tutta la vicenda fin qui narrata, sia nel senso appena esposto, sia per le esplicite richieste di morte rivolte da Tobi e Sara al padre divino. Da qui, comunque, inizia un percorso diverso, e la strana figura dell’angelo è determinante. Perché strana? Innanzitutto questi è seguito da un cane, e ricavo da una copia della Bibbia edita da Garzanti a mia disposizione che il cane per gli ebrei era un animale impuro. Già questo particolare può chiarire molte cose, prima fra tutte la diffidenza mostrata da Tobi quando insiste per conoscere l’appartenenza familiare di Raffaele-Azarìa: infatti questi dev’essere particolarmente sospetto per un israelita osservante dell’epoca, più di quanto il racconto stesso lasci intendere. Si tratta di un viaggiatore presumibilmente sconosciuto, che Tobia recluta dalla piazza forse proprio perché appare come un vagabondo, quindi un girovago che conosce le strade, per di più accompagnato da un animale impuro. L’associazione dell’uomo e del cane spesso è ancor oggi riscontrabile fra i viandanti che versano in situazioni di degrado e di emarginazione, ma anche il mito, la leggenda, persino i Tarocchi, descrivono questo tipo di personaggio come folle, al di fuori dagli schemi, ai margini della società. Il cane, inoltre, con tutta probabilità è impuro perché su di lui vengono proiettati gli impulsi aggressivi e sessuali non ammessi coscientemente. Quindi, stranamente, Raffaele si presenta come un estraneo almeno in parte inaccettabile dalla comunità tribale descritta nel testo. Tuttavia egli può essere avvicinato agli shoten zenjin del buddismo, le ‘divinità celesti’, cioè quelle funzioni favorevoli della vita che – attivate dalla forza della pratica meditativa - vengono ad aiutare chi si pone sul cammino della rivoluzione interiore. Queste funzioni possono presentarsi concretamente come occasioni, situazioni o persone che, però, vanno riconosciute e accolte: in altre parole bisogna disporsi verso il nuovo, l’inatteso. Raffaele in effetti viene accettato nel nostro racconto, forse per l’inesperienza di Tobia, forse perché Tobi è cieco e non può vederlo, accontentandosi di una rassicurante dichiarazione di parentela: in questa maniera si prepara, malgrado le forti resistenze dei protagonisti al cambiamento, una soluzione della vicenda, con una progressiva ancorché parziale emersione e accettazione del rimosso, cioè degli impulsi aggressivi verso il padre e del desiderio incestuoso verso la madre; elementi questi che la psicologia junghiana equipara nel simbolo alla sconfitta della inconsapevolezza e alla vittoriosa fusione della coscienza con l’inconscio, cui le prove prima citate (l’uccisione dell’animale pericoloso, l’annientamento del demonio, la liberazione della principessa e la conquista del tesoro) fanno riferimento. Tobi, a ben riflettere, affida suo figlio e un ingente patrimonio da recuperare ad uno sconosciuto o quasi, dandogli piena fiducia, cosa che per un individuo della sua mentalità pare incredibile, un vero salto nel vuoto, un azzardo con pochissimi elementi di sicurezza e controllo, un giocare il tutto per tutto, come sottolineato anche da sua moglie Anna. Nell’economia del racconto questo può considerarsi la prima azione di Tobi tendente ad un rinnovamento, di fatto corrispondente al porsi in discussione. Non dimentichiamo che l’intera vicenda si conclude, fra l’altro, con la riappropriazione della vista da parte di Tobi, finale che coincide metaforicamente con l’obiettivo principale sia della psicanalisi che della psicologia analitica. Anche il buddismo mira all’apertura degli occhi, cioè alla consapevolezza, a kanjin (osservare la propria mente), ciò che in linguaggio psicanalitico è rappresentato dall’emersione del rimosso e dalla sua integrazione nella coscienza, mentre nelle concezioni junghiane equivale ad un dialogo e ad un equilibrio dinamico e in sviluppo del conscio con l’inconscio. In breve - e più semplicemente - si tratta di conoscere sé stessi al di là dell’immagine superficiale o stereotipata, frutto di vari gradi di incoscienza e di illusione.

Tobia - capitolo 6


Comincia il viaggio di Tobia e dell’angelo, viaggio che – a buon diritto – può definirsi iniziatico. Prima di esaminarlo, però, mi sembra importante fare alcune considerazioni riassuntive sul senso dei capitoli precedenti. In breve, abbiamo riconosciuto nella vicenda di Tobi e più in generale della tribù di Neftali una forte componente patriarcale, incentrata su strette regole comunitarie e osservanze religiose, e sulla identificazione o proiezione dell’immagine paterna nel Dio personale degli ebrei, presentato come un sovrano o comunque un patriarca, un primo antenato. Rispetto a questo genitore divino, ispirandoci al pensiero di Freud, abbiamo riscontrato l’influenza del senso di colpa relativo ad un peccato atavico, originale, commesso in tempi remoti; peccato che è rappresentato sostanzialmente da un atto di ribellione alle valenze terribili dell’archetipo paterno, cioè quelle di un’autorità dispotica e frustrante. La religiosità di Tobi sembra incentrata su questo evento relegato nell’inconscio di razza - reale o simbolico che sia - consistendo principalmente nel blandire la figura genitoriale con offerte e osservanze così da meritarne o recuperarne l’approvazione, proiettando tutto quello che può essere correlato con l’aspetto negativo e aggressivo della figura paterna (e con l’ostilità verso di essa) sul demonio e, in parte, sui pagani. Le forme psichiche e spirituali del matriarcato – probabile livello precedente nello sviluppo delle culture umane, vedi il pensiero di J.J. Bachofen, il grande mitologo del XIX secolo – sono presenti nel racconto del Libro di Tobia (ad esempio l’endogamia, il legame di sangue) ma relegate sullo sfondo e reinterpretate al servizio del patriarcato. Il ruolo di Sara incarna probabilmente questo livello culturale, ma viene vissuto come pericoloso, contrario alla norma: la sua possibile responsabilità nella morte di sette mariti, infatti, fa pensare ad un femminile indipendente, che non si lascia sottomettere nella istituzione matrimoniale di stampo patriarcale. Tale aspetto di ribellione della donna, però, è sottaciuto nel racconto, nascosto e giustificato con l’intervento del diavolo Asmodeo, riconducendo la responsabilità dell’indomabilità di Sara alla componente maschile negativa. Di più: Sara non può decidere ad insaputa del padre neppure di togliersi la vita, quindi ai fini della cultura patriarcale deve poter rappresentare una femminilità perfettamente controllata e vinta. La mia interpretazione della sua impossibilità di concretizzare il matrimonio e della sopravvenuta cecità di Tobi – le problematiche centrali di questa storia - è che né le componenti matriarcali, né quelle patriarcali risultano equilibrate, armoniche: il femminile conserva un aspetto fortemente avverso ad una società maschile troppo distante dalle componenti materne, sentimentali e biologiche, mentre questa – con le sue regole disciplinari, con le sue osservanze e obbedienze – è immatura, cieca, cioè rifiuta una parte del reale (forse proprio la componente femminile) o, addirittura, la vita stessa. Il testo, però, cerca di trovare una soluzione a tutto ciò e, come già osservato precedentemente, propone un viaggio iniziatico che sembra estraneo per molti versi alla cultura ebraica del racconto, presentando accenti mitici pagani. Secondo me, pur rimanendo l’intera storia sempre e comunque all’interno della concezione paterna autoritaria, in essa si tenta inconsciamente un recupero dell’altra componente, presumibilmente di tipo femminile, politeista e libertario. Già nel fatto che si adoperino personaggi animali, il cane, e principalmente in questo sesto capitolo il pesce - quest’ultimo importantissimo ai fini magici della conclusione risolutiva - possiamo intravedere il tentativo di riscattare elementi simbolici primordiali con una certa evidenza estranei al monoteismo patriarcale. In ogni caso il pesce che aggredisce Tobia è una rappresentazione del pericolo dell’acqua, è una creatura divorante e, per ciò stesso, relativo alla Grande Madre nel suo aspetto spaventevole, che arresta lo sviluppo e che risucchia nel ventre. Troviamo nella tradizione ebraica una conferma di questo nell’analoga figura mitologica del Leviatano, il pesce-serpente marino combattuto da Dio: “Tu con potenza hai diviso il mare, hai schiacciato la testa dei draghi sulle acque. Al Leviatàn hai spezzato la testa, l’hai dato in pasto ai mostri marini” (Salmo 74, 13-14) e “In quel giorno il Signore punirà con la spada dura, grande e forte il Leviatàn, serpente guizzante, il Leviatàn serpente tortuoso e ucciderà il drago che sta nel mare” (Isaia 27, 1). Il grande mostro degli abissi compare sia nella Bibbia che nei testi tradizionali correlati, associato con l’inizio dei tempi e con la loro fine. Il senso della lotta con il Signore sembra essere il dominio del Caos da parte della divinità maschile, che dirige la creazione e la dissoluzione del Cosmo. Possiamo vedere in ciò la supremazia delle forze ordinatrici (e freudianamente castranti) del Grande Padre sulle componenti ribollenti, caotiche e primordiali della Natura, la Grande Madre - che ingloba nel mito anche caratteristiche virili o falliche, ma contrarie al Signore. Tobia, che si sostituisce a Tobi come protagonista ed eroe della vicenda, già nell’uccidere il pesce esorcizza il femminino terribile inviso alla mentalità dei patriarchi e prefigura la ‘liberazione’ di Sara. Difatti sarà proprio dalla creatura marina che – su suggerimento dell’angelo – si trarranno gli elementi concreti del rito sciamanico per attuare l’esorcismo di Asmodeo. Del pesce vengono scartati gli intestini, simbolo delle circonvoluzioni labirintiche sotterranee o sottomarine dell’inconscio, e sono conservati per il loro uso magico il cuore e il fegato, organi tipicamente maschili connessi con la coscienza virile, il coraggio e la combattività: ricordiamo che per molte popolazioni dell’antichità – per esempio gli egizi - il cuore aveva un significato non tanto legato all’emozionalità o al sentimento quanto all’intelletto, alla mente, all’individuo, a somiglianza di quanto oggi rappresenta per noi la testa. Viene conservato anche il fiele, necessario per la guarigione dall’albugine, di cui analizzeremo a suo tempo il valore rispetto alla figura di Tobi. Le parti restanti del pesce vengono arrostite e mangiate, o salate (proprio come si dice che avviene delle carni del Leviatano), cioè opportunamente trattate e rese assimilabili: la cultura maschile del Dio-Patriarca cerca di elaborare e trasformare o tenere sotto controllo gli elementi rifiutati e pericolosi dell’archetipo femminile.
Non a caso in questo stesso capitolo Raffaele prepara Tobia al matrimonio, assicurandogli che Sara potrà essere purificata dalle componenti indomabili e che, anzi, si inserirà perfettamente nella cultura dei padri e nella tradizione familiare e tribale. Sara è insomma destinata a Tobia e, insieme, potranno rappresentare la sospirata unione degli opposti. Si può obbiettare a ragione che in questa storia soltanto la donna muta sé stessa a beneficio della società patriarcale, e che non avviene la stessa cosa per l’uomo: i due poli non si integrano veramente, ma soltanto uno dei due accondiscende e si sottomette unilateralmente all’altro. Ciò è abbastanza vero per il quadro culturale che stiamo esaminando, ma soltanto parzialmente. In realtà, a mio parere, in forma molto velata, potenziale, solo accennata nel simbolo e quindi ancora da sviluppare consapevolmente, anche il maschile troverà in questo racconto una mutazione di sé e si avvicinerà all’aspetto opposto e complementare, come potremo osservare riflettendo sulla guarigione del ‘padre’ Tobi.

Non trovo che ci sia da aggiungere altro, se non il fatto che esiste in estremo-oriente, nel buddismo, un concetto molto importante indicato con l’espressione nini-funi: ‘due-ma-non-due’; con essa si intende la profonda unicità di elementi in apparenza inconciliabili o, comunque, appartenenti a piani diversi: ad esempio corpo e mente, individuo e ambiente, Samsara e Nirvana, il Budda e il comune mortale, e via dicendo. L’idea fondante è l’umanesimo della Via di Mezzo, cioè la possibilità di comporre le differenze e i conflitti attraverso il dialogo, a tutti i livelli – cominciando da quelli interni al singolo individuo: Jung parlerebbe anche qui, come indubbiamente e a suo modo pure Freud, di integrazione fra coscienza e inconscio.

Tobia - capitolo 7


Il capitolo 7 è piuttosto breve e non presenta particolari novità rispetto al quadro interpretativo già delineato precedentemente. Il suo scopo è quello di descrivere i preliminari del matrimonio fra Tobia e Sara, presentandoli nella forma di un iter contrattuale. Le varie fasi della vicenda infatti – l’incontro con Raguele, il riconoscimento della parentela, la domanda di matrimonio con il chiarimento delle difficoltà correlate, la determinazione di Tobia, il documento ufficiale, la celebrazione e la preparazione della camera nuziale – sembrano esporre la procedura necessaria alla chiusura di un accordo, di una transazione. La donna non ha alcuna parte nella decisione, pur avendo sicura consapevolezza che le nozze sono una componente imprescindibile dal suo destino familiare e sociale. Neppure sono presi in considerazione i fattori affettivi e individuali: il grado di parentela, l’appartenenza tribale e la consanguineità sono, per il tipo di cultura in esame, gli unici elementi atti a veicolare il patto matrimoniale. Questa mentalità può sembrare molto lontana dalla realtà odierna, ma non lo è poi tanto: l’emancipazione femminile, il riconoscimento delle pari opportunità, il diritto di voto e via dicendo sono lontani dall’essere elementi acquisiti universalmente e, comunque, non lo sono da molto tempo. Di fatto la società patriarcale, di cui siamo eredi, esprime nei riguardi della femminilità un segreto timore molto vicino al tabù di stampo freudiano. Nel racconto in esame questo timore appare come il fondato motivo difensivo della repressione di ogni emozionalità, della mancanza di reciprocità con la donna e della facciata esclusivamente contrattuale, direi notarile, dell’atto matrimoniale. Nel capitolo successivo, come vedremo, Tobia e Sara rimuovono perfino l’aspetto sessuale dell’unione, occultandolo con la preghiera e con il racconto tratto da Genesi della creazione della donna (che – dice - origina dall’uomo, con un caratteristico ribaltamento dei ruoli), implorando poi la misericordia del Signore come se dovessero giustificare lo sposalizio e chiedessero perdono per qualcosa di peccaminoso. Il nascondimento della donna, proprio di molte culture antiche e moderne, sembra in linea con questo pudore, con il tentativo di controllo e di soppressione degli aspetti femminei della vita. Secondo la psicanalisi ciò che viene mascherato, nascosto, represso, è anche ciò che contemporaneamente si teme e si desidera fortemente; in questo caso Freud direbbe probabilmente che il timore-desiderio celato è con evidenza quello dell’incesto. In altri termini si può affermare che la società patriarcale, per esigenze connesse alla sua evoluzione – che per certi versi coincide con l’emergere della coscienza individualizzata dalla inconsapevolezza – ha bisogno di distaccarsi dall’enorme potere biologico, affettivo, vitale, della femminilità e del matriarcato, cioè simbolicamente dalla Grande Madre. Il patriarcato cerca di affermare il predominio dell’uomo sulla Natura percepita come entità passionale, incontrollabile e soverchiante – che in questa fase viene identificata con la rinuncia alla conoscenza, con il rischio di annullamento per l’io nascente e non ancora del tutto liberato dalla collettività. Al contempo, avendo riconosciuto sé stesso nella coscienza, il patriarcato è segretamente attratto dal suo opposto: l’inconsapevolezza, l’oscurità, la regressione nel ventre della madre e della donna, su cui ha proiettato le proprie componenti istintuali e inconscie. Da essa origina e invece ambisce generarla come nel mito della Genesi per dominarla e reinventarla a suo modo. La prova che deve affrontare Tobia, dunque, è cruciale e terrifica: egli va a domare l’archetipo femminile affrontando la morte, cioè l’annientamento di quanto la sua cultura ritiene di aver acquisito. In un certo senso, essendo Sara il prodotto di questa stessa civiltà e dovendo incontrare l’aspetto selvaggio di sé proiettato sul demone Asmodeo, è anche lei messa alla prova, anche a lei serve coraggio e determinazione. La camera nuziale già preparata con la quale si conclude questo capitolo è la scena di un confronto con le componenti indomabili della vita e della morte, con ciò che la coscienza - ancora non particolarmente autoconsapevole - non riesce a controllare.