lunedì, novembre 14, 2005

Tobia - capitolo 1


La prima cosa che apprendo ricercando informazioni su questo Libro della Bibbia propostoci dagli amici e guide del nostro gruppo, è il fatto che esso viene considerato testo canonico – cioè parola di Dio – soltanto dal punto di vista cattolico, mentre gli ebrei e i protestanti lo reputano apocrifo. Ciò mi fa riflettere sulla estrema variabilità del senso del sacro e sulla diversità di quello che gli uomini considerano tale a seconda della loro sensibilità, cultura, epoca storica e, fatalmente, anche del grado di evoluzione spirituale. Altra considerazione sul testo – al di là di una certa godibilità del racconto e di una sua sapiente costruzione drammatica – riguarda l’evidente lontananza fra alcuni dei costumi e degli usi in esso proposti come spiritualmente positivi e quella che potrebbe essere reputata una concezione più aperta nell’ambito della ricerca interiore. Per fare un esempio, fra tanti possibili: nel primo capitolo Tobi ritiene gradita a Dio la sua astensione dai cibi dei pagani che, si desume, sono visti come contaminanti. Prescindendo per il momento da una interpretazione simbolica o metaforica, una tale idea non mi pare oggi condivisibile, sembrandomi molto più spirituale non creare separazioni aprioristiche e accettare, come Gesù, di condividere il cibo anche con i cosiddetti peccatori, i socialmente reietti o altri. Anche il Budda seppe andare oltre le distinzioni di classe della società della sua epoca, quella brahmanica, accettando come compagni di ricerca e di vita chiunque fosse sinceramente interessato al cambiamento interiore, compresi i fuoricasta, gli intoccabili. Chi non seguiva il suo stesso cammino era ugualmente considerato con rispetto, benevolenza, compassione, genuina cortesia e, eventualmente, accolto come compagno di viaggio, di dialogo, come essere umano. Naturalmente non è mia intenzione polemizzare con la Bibbia perché, anzi, nutro rispetto per ogni tentativo di indagine sui grandi temi della vita, della morte, del significato dell’esistenza. Quello che mi pare importante sottolineare è, invece, il costante pericolo di dare valore al solo significato letterale dei testi considerati sacri – che invece, spesso, è legato a condizioni culturali e storiche particolari - magari perdendo di vista i contenuti più sostanziali e cadendo così in una concezione integralista. Anche il livello simbolico-metaforico presenta i suoi rischi, in quanto l’archetipo è una medicina sottile che indirizza comunque la mente in una particolare direzione e, in un certo qual modo, può essere condizionante se non si sa ben gestirlo. Inoltre, data l’estrema duttilità mercuriale dei simboli, essi possono riflettere semplicemente le proiezioni dell’interprete che, invece di coglierne gli aspetti trasmutatori, di rinnovamento, tende a ritrovare in essi nient’altro che le sue pre-concezioni. Nel buddismo sono note due interpretazioni dei sutra, quella superficiale e quella profonda. Questa seconda implica la ricerca di un livello di sentire ulteriore, che coinvolge il cuore e la mente, che richiede flessibilità, autoconoscenza e saggezza. Da questo punto di vista, anzi, i sutra vengono letti e recitati ritualmente per confutarne il senso superficiale e realizzarne quello profondo: in altre parole si cerca di oltrepassare i nostri limiti di comprensione, le nostre chiusure, per toccare qualcosa di sottostante, connesso con la vita.
Detto questo, ritengo che il testo in esame – sia pure con linguaggio e concettualizzazioni arcaiche -intenda descrivere in questo primo capitolo l’onestà e il senso della giustizia di Tobi, che lo differenziano dagli appartenenti alla sua stessa tribù. La sua pratica religiosa non si limita alla preghiera o alla speculazione filosofica e teologica, bensì è sostenuta e completata dall’azione concreta, volta all’aiuto degli altri e all’osservanza della Legge divina non soltanto nelle grandi dichiarazioni d’intenti, ma anche nei piccoli particolari della vita quotidiana. Tobi segue la propria coscienza, per così dire, anche a costo di rischiare personalmente le critiche altrui o addirittura l’opposizione da parte dell’autorità. Interessante è la specifica delle tre decime, offerte all’altare, ai sacerdoti, ai poveri. In effetti, riportando il concetto a noi, qualsiasi ricerca interiore è un’offerta di sé, in primo luogo del proprio tempo e delle proprie energie, all’altare – cioè al divino, alla buddità interiore. Non è detto che sia facile, comunque, dedicare del tempo e dello spazio nella propria giornata alla preghiera e alla meditazione, cioè a noi stessi nel senso più alto, presi come siamo dalle pur legittime faccende cui dobbiamo attendere. Allo stesso modo l’offerta di sé andrebbe fatta anche alla comunità di ricercatori, i ‘sacerdoti’ del testo, cioè quelli con i quali si condividono certi interessi o una certa fede, per stare insieme, dialogare, costruire una comunità positiva e libera, sostenersi vicendevolmente. Infine non bisognerebbe disdegnare la decima ai ‘poveri’, cioè a chiunque, agli sconosciuti, a chi ha bisogno di una qualche forma di considerazione o di aiuto, insomma agli altri, quelli con i quali non necessariamente siamo legati da qualsivoglia interesse, ma in virtù di un legame universale che ci unisce tutti. Altro particolare importante del testo: Tobi ha molta cura nel seppellire i morti, rischiando per questo anche la sua incolumità personale. Forse i più antichi rituali religiosi di cui ci sono rimaste tracce sono proprio quelli funebri: l’archeologia ha scoperto tracce di offerte floreali nei pressi di sepolture preistoriche. Nel buddismo si dichiara esplicitamente che ogni spinta religiosa e conoscitiva nasce proprio da considerazioni sulla morte e dalla sensazione della sua sacralità. Da questo punto di vista Tobi sostituisce l’incuria verso l’eternità nell’uomo con una irriducibile compassione verso chi si trova a fronteggiare il mistero principale dell’esistenza, il trapasso. Lo fa senza angustiarsi più di tanto dei rovesci di fortuna, delle persecuzioni, dei periodi di benessere: va avanti per la sua strada. Al contempo si preoccupa di lasciare in custodia presso un suo parente una ingente somma in argento. Al di là delle considerazioni pratiche, più o meno condivisibili, del ‘capitalizzare’ in banca dei beni, vedrei in questa scelta di Tobi un paio di importanti concetti: il primo è senz’altro la prudenza, l’accortezza con la quale ogni cosa viene da lui trattata cercando di rintracciarne il valore, preoccupandosi non solo per il presente ma anche per il futuro. Il secondo concetto, credo più importante, è che l’episodio può essere una metafora profonda sull’atteggiamento del protagonista: egli, con la sua religiosità, la sua cura, il rispetto, le ‘decime’, mette in realtà da parte – secondo la Legge karmica di causa ed effetto – un capitale positivo, apportatore di benefici, di coscienza, che non potrà mai essergli alienato e che, al momento opportuno, gli tornerà estremamente utile. Come dire che tutte le nostre azioni, pensieri, parole, indirizzano il nostro destino. Le cause generate rimangono depositate in maniera latente nella profondità della nostra vita per un certo tempo, ma al momento opportuno emergeranno e si manifesteranno visibilmente.

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