lunedì, novembre 14, 2005

Tobia - capitolo 5


L’elemento determinante della vicenda del capitolo 5 - come anche del prosieguo della storia di Tobia - è l’intervento dell’angelo Raffaele, inviato dal Signore in risposta alle preghiere di Tobi e Sara. A ben vedere questo intervento presenta alcuni caratteri particolari, di eccezionalità, che sembrano quasi indicare un fondo mitico e culturale diverso da quello su cui il racconto si è basato fino a questo punto. Anzi, proprio queste diversità fanno sì che il Libro di Tobia non sia accettato unanimemente come testo sacro dalle correnti religiose facenti riferimento alla Bibbia: ad esempio per il fatto che l’angelo si cela sotto le ‘mentite’ spoglie di un lontano parente di Tobi, Azarìa, quindi mascherandosi a somiglianza delle divinità greche e orientali. Oppure, come descritto nei capitoli seguenti, perché egli suggerirà - al fine di scacciare il demonio Asmodeo - un rito ‘magico’ con tutta l’apparenza di un cerimoniale profano. In effetti da qui in poi il racconto assume il tono della favola o del mito, ed è particolarmente correlabile con quelle storie dove c’è un eroe, un viaggio iniziatico, l’uccisione di un animale pericoloso, l’acquisizione di doni, oggetti o attributi magici, la sconfitta di un demone, la liberazione di una principessa, il ritrovamento o la conquista di un tesoro: tutti elementi che sono effettivamente presenti nei capitoli successivi. Potremmo ritenere la psicologia freudiana meno adatta di quella junghiana alla decifrazione di tutto ciò, essendo quest’ultima maggiormente volta a rintracciare nei miti i processi trasformativi e teleologici, cioè connessi con quello che Jung chiama il processo di individuazione. Tuttavia trattandosi di una storia ebraica non tralascerei tanto facilmente l’impostazione di Freud – ebreo anche lui – che mi sembra, come ho già puntualizzato in precedenza, molto adatta a comprenderne i significati riposti. Anche se alcuni elementi narrativi fossero spuri rispetto alla tradizionale mentalità israelita, comunque sono stati assorbiti in questo racconto e quindi possono rientrarvi a pieno titolo ai fini dell’interpretazione. Da questo punto di vista dobbiamo ancora una volta notare come la figura del padre, proprio freudianamente intesa, sia qui particolarmente evidente: il senso di colpa atavico e la ricerca dell’approvazione dell’antenato paterno sublimato nella figura divina sono rilevanti nel racconto, come anche la repressione dell’ostilità verso di lui, supportata dalla proiezione dei sentimenti inaccettabili sul demonio. Una siffatta mentalità, che oltretutto si conserva chiusa rispetto ad altre popolazioni e culture perché escluse a priori dalla discendenza totemica di riferimento, potrebbe in breve tempo fossilizzarsi, perdere quegli elementi di vitalità connessi all’apertura, lo scambio, allo scontro vitale con ciò che è esterno alla compagine tribale: un organismo troppo ordinato, difeso, strutturato, senza contraddizioni né al suo interno né all’esterno, perfettamente aderente alla norma stabilita, rischia la cristallizzazione e la morte. La vita, l’élan vital, si presenta invece come disordine creativo, oltrepassamento del già acquisito, interruzione dei cicli ripetitivi e resistenti al cambiamento. Parafrasando Henri Bergson, filosofo ebreo contemporaneo di Sigmund Freud, esistono una società chiusa e una società aperta, una morale chiusa fatta di obblighi e divieti e una morale aperta il cui scopo principale è il sostegno e la crescita degli individui, una religione statica al servizio della coesione del gruppo e una religione dinamica come quella dei mistici. In effetti ciò che Freud chiama l’impulso di morte – frutto delle mature concettualizzazioni del grande psicanalista - trova manifestazione palese in tutta la vicenda fin qui narrata, sia nel senso appena esposto, sia per le esplicite richieste di morte rivolte da Tobi e Sara al padre divino. Da qui, comunque, inizia un percorso diverso, e la strana figura dell’angelo è determinante. Perché strana? Innanzitutto questi è seguito da un cane, e ricavo da una copia della Bibbia edita da Garzanti a mia disposizione che il cane per gli ebrei era un animale impuro. Già questo particolare può chiarire molte cose, prima fra tutte la diffidenza mostrata da Tobi quando insiste per conoscere l’appartenenza familiare di Raffaele-Azarìa: infatti questi dev’essere particolarmente sospetto per un israelita osservante dell’epoca, più di quanto il racconto stesso lasci intendere. Si tratta di un viaggiatore presumibilmente sconosciuto, che Tobia recluta dalla piazza forse proprio perché appare come un vagabondo, quindi un girovago che conosce le strade, per di più accompagnato da un animale impuro. L’associazione dell’uomo e del cane spesso è ancor oggi riscontrabile fra i viandanti che versano in situazioni di degrado e di emarginazione, ma anche il mito, la leggenda, persino i Tarocchi, descrivono questo tipo di personaggio come folle, al di fuori dagli schemi, ai margini della società. Il cane, inoltre, con tutta probabilità è impuro perché su di lui vengono proiettati gli impulsi aggressivi e sessuali non ammessi coscientemente. Quindi, stranamente, Raffaele si presenta come un estraneo almeno in parte inaccettabile dalla comunità tribale descritta nel testo. Tuttavia egli può essere avvicinato agli shoten zenjin del buddismo, le ‘divinità celesti’, cioè quelle funzioni favorevoli della vita che – attivate dalla forza della pratica meditativa - vengono ad aiutare chi si pone sul cammino della rivoluzione interiore. Queste funzioni possono presentarsi concretamente come occasioni, situazioni o persone che, però, vanno riconosciute e accolte: in altre parole bisogna disporsi verso il nuovo, l’inatteso. Raffaele in effetti viene accettato nel nostro racconto, forse per l’inesperienza di Tobia, forse perché Tobi è cieco e non può vederlo, accontentandosi di una rassicurante dichiarazione di parentela: in questa maniera si prepara, malgrado le forti resistenze dei protagonisti al cambiamento, una soluzione della vicenda, con una progressiva ancorché parziale emersione e accettazione del rimosso, cioè degli impulsi aggressivi verso il padre e del desiderio incestuoso verso la madre; elementi questi che la psicologia junghiana equipara nel simbolo alla sconfitta della inconsapevolezza e alla vittoriosa fusione della coscienza con l’inconscio, cui le prove prima citate (l’uccisione dell’animale pericoloso, l’annientamento del demonio, la liberazione della principessa e la conquista del tesoro) fanno riferimento. Tobi, a ben riflettere, affida suo figlio e un ingente patrimonio da recuperare ad uno sconosciuto o quasi, dandogli piena fiducia, cosa che per un individuo della sua mentalità pare incredibile, un vero salto nel vuoto, un azzardo con pochissimi elementi di sicurezza e controllo, un giocare il tutto per tutto, come sottolineato anche da sua moglie Anna. Nell’economia del racconto questo può considerarsi la prima azione di Tobi tendente ad un rinnovamento, di fatto corrispondente al porsi in discussione. Non dimentichiamo che l’intera vicenda si conclude, fra l’altro, con la riappropriazione della vista da parte di Tobi, finale che coincide metaforicamente con l’obiettivo principale sia della psicanalisi che della psicologia analitica. Anche il buddismo mira all’apertura degli occhi, cioè alla consapevolezza, a kanjin (osservare la propria mente), ciò che in linguaggio psicanalitico è rappresentato dall’emersione del rimosso e dalla sua integrazione nella coscienza, mentre nelle concezioni junghiane equivale ad un dialogo e ad un equilibrio dinamico e in sviluppo del conscio con l’inconscio. In breve - e più semplicemente - si tratta di conoscere sé stessi al di là dell’immagine superficiale o stereotipata, frutto di vari gradi di incoscienza e di illusione.

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