lunedì, novembre 14, 2005

Tobia - capitolo 6


Comincia il viaggio di Tobia e dell’angelo, viaggio che – a buon diritto – può definirsi iniziatico. Prima di esaminarlo, però, mi sembra importante fare alcune considerazioni riassuntive sul senso dei capitoli precedenti. In breve, abbiamo riconosciuto nella vicenda di Tobi e più in generale della tribù di Neftali una forte componente patriarcale, incentrata su strette regole comunitarie e osservanze religiose, e sulla identificazione o proiezione dell’immagine paterna nel Dio personale degli ebrei, presentato come un sovrano o comunque un patriarca, un primo antenato. Rispetto a questo genitore divino, ispirandoci al pensiero di Freud, abbiamo riscontrato l’influenza del senso di colpa relativo ad un peccato atavico, originale, commesso in tempi remoti; peccato che è rappresentato sostanzialmente da un atto di ribellione alle valenze terribili dell’archetipo paterno, cioè quelle di un’autorità dispotica e frustrante. La religiosità di Tobi sembra incentrata su questo evento relegato nell’inconscio di razza - reale o simbolico che sia - consistendo principalmente nel blandire la figura genitoriale con offerte e osservanze così da meritarne o recuperarne l’approvazione, proiettando tutto quello che può essere correlato con l’aspetto negativo e aggressivo della figura paterna (e con l’ostilità verso di essa) sul demonio e, in parte, sui pagani. Le forme psichiche e spirituali del matriarcato – probabile livello precedente nello sviluppo delle culture umane, vedi il pensiero di J.J. Bachofen, il grande mitologo del XIX secolo – sono presenti nel racconto del Libro di Tobia (ad esempio l’endogamia, il legame di sangue) ma relegate sullo sfondo e reinterpretate al servizio del patriarcato. Il ruolo di Sara incarna probabilmente questo livello culturale, ma viene vissuto come pericoloso, contrario alla norma: la sua possibile responsabilità nella morte di sette mariti, infatti, fa pensare ad un femminile indipendente, che non si lascia sottomettere nella istituzione matrimoniale di stampo patriarcale. Tale aspetto di ribellione della donna, però, è sottaciuto nel racconto, nascosto e giustificato con l’intervento del diavolo Asmodeo, riconducendo la responsabilità dell’indomabilità di Sara alla componente maschile negativa. Di più: Sara non può decidere ad insaputa del padre neppure di togliersi la vita, quindi ai fini della cultura patriarcale deve poter rappresentare una femminilità perfettamente controllata e vinta. La mia interpretazione della sua impossibilità di concretizzare il matrimonio e della sopravvenuta cecità di Tobi – le problematiche centrali di questa storia - è che né le componenti matriarcali, né quelle patriarcali risultano equilibrate, armoniche: il femminile conserva un aspetto fortemente avverso ad una società maschile troppo distante dalle componenti materne, sentimentali e biologiche, mentre questa – con le sue regole disciplinari, con le sue osservanze e obbedienze – è immatura, cieca, cioè rifiuta una parte del reale (forse proprio la componente femminile) o, addirittura, la vita stessa. Il testo, però, cerca di trovare una soluzione a tutto ciò e, come già osservato precedentemente, propone un viaggio iniziatico che sembra estraneo per molti versi alla cultura ebraica del racconto, presentando accenti mitici pagani. Secondo me, pur rimanendo l’intera storia sempre e comunque all’interno della concezione paterna autoritaria, in essa si tenta inconsciamente un recupero dell’altra componente, presumibilmente di tipo femminile, politeista e libertario. Già nel fatto che si adoperino personaggi animali, il cane, e principalmente in questo sesto capitolo il pesce - quest’ultimo importantissimo ai fini magici della conclusione risolutiva - possiamo intravedere il tentativo di riscattare elementi simbolici primordiali con una certa evidenza estranei al monoteismo patriarcale. In ogni caso il pesce che aggredisce Tobia è una rappresentazione del pericolo dell’acqua, è una creatura divorante e, per ciò stesso, relativo alla Grande Madre nel suo aspetto spaventevole, che arresta lo sviluppo e che risucchia nel ventre. Troviamo nella tradizione ebraica una conferma di questo nell’analoga figura mitologica del Leviatano, il pesce-serpente marino combattuto da Dio: “Tu con potenza hai diviso il mare, hai schiacciato la testa dei draghi sulle acque. Al Leviatàn hai spezzato la testa, l’hai dato in pasto ai mostri marini” (Salmo 74, 13-14) e “In quel giorno il Signore punirà con la spada dura, grande e forte il Leviatàn, serpente guizzante, il Leviatàn serpente tortuoso e ucciderà il drago che sta nel mare” (Isaia 27, 1). Il grande mostro degli abissi compare sia nella Bibbia che nei testi tradizionali correlati, associato con l’inizio dei tempi e con la loro fine. Il senso della lotta con il Signore sembra essere il dominio del Caos da parte della divinità maschile, che dirige la creazione e la dissoluzione del Cosmo. Possiamo vedere in ciò la supremazia delle forze ordinatrici (e freudianamente castranti) del Grande Padre sulle componenti ribollenti, caotiche e primordiali della Natura, la Grande Madre - che ingloba nel mito anche caratteristiche virili o falliche, ma contrarie al Signore. Tobia, che si sostituisce a Tobi come protagonista ed eroe della vicenda, già nell’uccidere il pesce esorcizza il femminino terribile inviso alla mentalità dei patriarchi e prefigura la ‘liberazione’ di Sara. Difatti sarà proprio dalla creatura marina che – su suggerimento dell’angelo – si trarranno gli elementi concreti del rito sciamanico per attuare l’esorcismo di Asmodeo. Del pesce vengono scartati gli intestini, simbolo delle circonvoluzioni labirintiche sotterranee o sottomarine dell’inconscio, e sono conservati per il loro uso magico il cuore e il fegato, organi tipicamente maschili connessi con la coscienza virile, il coraggio e la combattività: ricordiamo che per molte popolazioni dell’antichità – per esempio gli egizi - il cuore aveva un significato non tanto legato all’emozionalità o al sentimento quanto all’intelletto, alla mente, all’individuo, a somiglianza di quanto oggi rappresenta per noi la testa. Viene conservato anche il fiele, necessario per la guarigione dall’albugine, di cui analizzeremo a suo tempo il valore rispetto alla figura di Tobi. Le parti restanti del pesce vengono arrostite e mangiate, o salate (proprio come si dice che avviene delle carni del Leviatano), cioè opportunamente trattate e rese assimilabili: la cultura maschile del Dio-Patriarca cerca di elaborare e trasformare o tenere sotto controllo gli elementi rifiutati e pericolosi dell’archetipo femminile.
Non a caso in questo stesso capitolo Raffaele prepara Tobia al matrimonio, assicurandogli che Sara potrà essere purificata dalle componenti indomabili e che, anzi, si inserirà perfettamente nella cultura dei padri e nella tradizione familiare e tribale. Sara è insomma destinata a Tobia e, insieme, potranno rappresentare la sospirata unione degli opposti. Si può obbiettare a ragione che in questa storia soltanto la donna muta sé stessa a beneficio della società patriarcale, e che non avviene la stessa cosa per l’uomo: i due poli non si integrano veramente, ma soltanto uno dei due accondiscende e si sottomette unilateralmente all’altro. Ciò è abbastanza vero per il quadro culturale che stiamo esaminando, ma soltanto parzialmente. In realtà, a mio parere, in forma molto velata, potenziale, solo accennata nel simbolo e quindi ancora da sviluppare consapevolmente, anche il maschile troverà in questo racconto una mutazione di sé e si avvicinerà all’aspetto opposto e complementare, come potremo osservare riflettendo sulla guarigione del ‘padre’ Tobi.

Non trovo che ci sia da aggiungere altro, se non il fatto che esiste in estremo-oriente, nel buddismo, un concetto molto importante indicato con l’espressione nini-funi: ‘due-ma-non-due’; con essa si intende la profonda unicità di elementi in apparenza inconciliabili o, comunque, appartenenti a piani diversi: ad esempio corpo e mente, individuo e ambiente, Samsara e Nirvana, il Budda e il comune mortale, e via dicendo. L’idea fondante è l’umanesimo della Via di Mezzo, cioè la possibilità di comporre le differenze e i conflitti attraverso il dialogo, a tutti i livelli – cominciando da quelli interni al singolo individuo: Jung parlerebbe anche qui, come indubbiamente e a suo modo pure Freud, di integrazione fra coscienza e inconscio.

Nessun commento: