lunedì, novembre 14, 2005

Tobia - capitolo 3


Questo terzo capitolo è forse il nucleo principale di tutta la vicenda raccontata, offrendole soluzione e anticipandone i risultati finali: Tobi e Sara pregano il Signore di morire e questo rappresenterà la loro salvezza, perché il Signore manderà loro una guida angelica che farà guarire dalla cecità l’uno e condurrà al matrimonio l’altra. Tobi dice nella sua invocazione “non punirmi per i miei peccati e per gli errori miei e dei miei padri”, dopo di che invoca la morte che, a questo punto, sembrerebbe quasi una fuga. E’ come se egli dicesse (e anche Sarà farà un discorso analogo): “io sono nel giusto, tutta la mia vita è dedita all’osservanza dei comandamenti divini, ma nessuno lo capisce, sia gli altri che mi circondano che gli eventi, il destino, non fanno che deridermi o ferirmi; quindi basta, non voglio più essere ‘punito’, voglio andarmene da questo mondo”. Si tratta di sentimenti comprensibilissimi, che più o meno proviamo tutti quando stiamo male. Il fatto è che, a mio parere, gli eventi negativi descritti nel testo dipendono dalla Legge del Karma, e questa – anche quando apparentemente si presenta come punitiva – non è mai fine a sé stessa, ma ponendoci di fronte alla logica conseguenza delle nostre azioni (anche di un remoto passato di cui non abbiamo il ricordo, ma di cui conserviamo gli esiti coscienziali) ci spinge ad evolvere e imparare. Quindi, in un certo senso, affrontare le cose, elaborarle, forse anche rifiutarle e combatterle - ma sempre cercando di meditare su sé stessi per conoscersi e cambiare – ci fa bene, anzi è proprio quello che ci serve. Bisogna anche ammettere che, a volte, nel momento della grande sofferenza, dell’oscurità, quando si tocca il fondo, è proprio in quell’istante che le cose cominciano a modificarsi. Nel buddismo si dice che ‘più buia è la notte più vicina è l’alba’, perché c’è sempre la possibilità di rivoluzionare il proprio destino in qualsiasi situazione, sviluppando una nuova visione delle cose. Viene anche detto che per potersi rialzare bisogna appoggiarsi al suolo, quindi fondare su ciò che sta in basso, che in questo caso possono essere anche gli stati d’animo di disperazione. Quando la vita ci sottopone a difficili prove, a momenti bui, nel nostro intimo accadono molte cose, e la maggior parte di queste sono connotate da insicurezza, paura, rabbia impotente, sentimenti autodistruttivi. In questi casi, che il buddismo qualifica come ‘jigoku’ - cioè ‘inferno’, esiste sempre la possibilità di determinarsi in modo diverso, perché anche lì è presente e vicino il mondo dell’Illuminazione: tutti i ‘mondi’ (cioè gli stati di coscienza) comunicano, si compenetrano profondamente.

Nel cercare, comunque, di comprendere questo Libro di Tobia, non posso fare a meno di continuare nel ragionamento psicanalitico che per me – a quanto pare – continua a rappresentare una chiave di lettura di questo testo, pur non essendo io particolarmente versato in questa disciplina ma attingendo ad essa da profano. Ritornando, dunque, al concetto dell’orda selvaggia e del capo totemico cui ho già fatto riferimento nel commento al secondo capitolo di Tobia, dobbiamo ricordare che, secondo Freud, i rituali religiosi nascondono in forma inconscia il senso di colpa per l’uccisione del padre da parte dei figli maschi, che nell’evoluzione tribale avevano la necessità di affrancarsi dallo strapotere genitoriale per una indipendenza sessuale e ‘politica’. L’idea che il fondatore della psicanalisi ha in mente è quella di una società primitiva affine a quella di certi primati, per esempio le scimmie, mediata dalle scienze naturali e antropologiche. In quel tipo di società il maschio dominante è a capo di un harem di individui di sesso femminile e impedisce relazioni sessuali endogamiche – cioè all’interno del clan - da parte dei figli maschi, i quali sono così sottoposti ad una forma di castrazione degli istinti, a meno di non abbandonare il gruppo oppure di ribellarsi al capostipite, cosa che sarebbe poi effettivamente avvenuta nel corso dell’evoluzione tribale. Il senso di colpa per questo evento ancestrale, inconscio e alla base del sacro (che Freud considera uno sviluppo ulteriore del tabù, cioè dei divieti profondi e originari del Super-io), condurrebbe ad una serie di tentativi di espiazione: restrizioni, osservanze religiose, paura di essere contaminati, che ben potrebbero conciliarsi con il comportamento di Tobi già descritto e soprattutto con la sua forte esigenza di seppellire gli israeliti morti (cioè gli appartenenti al clan, alla famiglia edipica), potendosi leggere in essa – sempre secondo le concettualizzazioni freudiane – la paura e l’ambivalenza di sentimenti verso il genitore primordiale assassinato e cioè (considerando gli spostamenti e le sublimazioni del caso) verso ‘Dio’. Tale colpa atavica non sarebbe soltanto quella del singolo componente della tribù, bensì quella di tutti i suoi membri e soprattutto degli antenati, “gli errori miei e dei miei padri”. Nonostante i tentativi di espiazione, proprio quando cerca di seppellire una persona defunta, Tobi rimane cieco per accidente. Ricordiamo che Freud, interpretando il mito di Edipo, considera l’accecamento come una forma di castrazione punitiva. Tutti gli accorgimenti rituali di Tobi, dunque, non hanno allontanato la punizione, non hanno efficacemente espiato le colpe, come gli fa notare la moglie. Questo lo getta nella disperazione e nel contempo genera la soluzione, in questa chiave interpretativa ora finalmente comprensibile. Il nostro protagonista, infatti, non potendo più reggere la tensione irrisolta della colpa, si rivolge al ‘Signore’ implorando di non essere punito per i suoi peccati e per quelli dei suoi avi, ma – affidandosi all’autorità di Dio, il genitore atavico – si offre come vittima sacrificale: è disposto a morire piuttosto che continuare a subire il giudizio negativo e gli insulti - in apparenza degli altri, ma in maniera più nascosta e inconscia di Dio stesso. Il suo, insomma, è un atto di sottomissione completo e un tentativo di riparazione totale della colpa originaria, con l’offerta della vita al capostipite mitico. Percorso analogo quello di Sara, sulla quale parimenti pesa – come individuo di sesso femminile - la figura archetipica del ‘maschio dominante’, rispetto al quale ogni altro maschio non ha diritti ed è un rivale che dev’essere eliminato: lei, scegliendo o accettando come mariti uomini diversi, li conduce implicitamente alla morte, all’assassinio da parte di Asmodeo – demone che incarna la parte violenta, carica di sentimenti ostili, del genitore primordiale. Quest’ultimo, infatti, viene separato psicologicamente in due figure ben distinte, Dio e il demonio, l’una rappresentante la giustizia e la bontà assolute (con il conseguente senso di colpa), l’altra accogliendo la proiezione di tutti i sentimenti negativi e aggressivi che – pur presenti - sarebbero inaccettabili se riferiti alla prima. Anche Sara risolve la situazione nel momento in cui, turbata dalle accuse altrui, comprende di non poter uscire dalla ‘colpevolezza’ altrimenti che con un atto di sottomissione e con l’offerta della vita, ma a discrezione di Dio. Essendo una donna, infatti, il darsi la morte da sola – com’è tentata di fare - rappresenterebbe comunque un atto di ribellione, di indebita autonomia. La sua unica scelta è l’abbandono alla volontà superiore. Ci si potrebbe chiedere, a questo punto, quanto questi atteggiamenti di sottomissione totale possano essere interpretabili come regressioni all’infanzia, dove l’autorità genitoriale viene percepita come onnipotente, con la conseguente abdicazione della propria coscienza di adulti, cioè di individui consapevoli di sé e responsabili del proprio destino.

Tutto questo discorso, uscendo dalla riduzione psicanalitica (o pseudo tale!) del testo alle sole forze pulsionali e subconscie, può forse essere meglio espresso con questo pensiero: nel nostro tentativo di affrontare la vita e le sue prove spesso resistiamo al messaggio nascosto degli eventi, al loro insegnamento, cercando di piegarli alla nostra mentalità. Quando non ci riusciamo cadiamo nello sconforto e ci abbandoniamo all’autocompassione e all’autodistruttività, che non sono troppo lontane l’una dall’altra. In questi casi la fede, la preghiera, la meditazione, possono essere di grande aiuto: esse consistono soprattutto nel comprendere che non possiamo affrontare le cose con le sole capacità della nostra mente, intesa come ‘piccolo io’, ma che dentro di noi abbiamo un potenziale molto più vasto al quale è possibile attingere. E’ un modo di ricollegarci – proprio nel senso di ripristinare il legame fra micro e macrocosmo, cioè religio, religione – con la Legge Meravigliosa che costituisce il segreto mistero della vita, morendo a quelle che sono le strategie limitate della mente e trovando in noi stessi un abbandono, una dedizione che significano sostanzialmente trasformazione, nonché attiva riappropriazione della propria individualità ad un livello più cosciente e integrato nel tutto universale.

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