lunedì, novembre 14, 2005

Tobia - capitolo 2


La lettura del secondo capitolo del Libro di Tobia mi sollecita alcune considerazioni collegate con la psicanalisi freudiana. Capisco che porre in relazione la psicologia con l’aspetto religioso del testo, col senso del sacro o con una possibile interpretazione esoterica non è del tutto corretto, soprattutto perché i concetti analitici sono riduttivi e, probabilmente, descrivono soltanto una parte della realtà - quella psicologica appunto - non spiegando necessariamente anche quella spirituale. Tuttavia Freud - oltre ad essere uno scienziato che si dichiarava ateo - era ebreo, e sono personalmente intrigato dall’idea che nelle sue ricerche abbia messo molto dello spirito ebraico e che abbia consciamente o inconsciamente – è il caso di dirlo – affrontato i temi profondi del misticismo del suo popolo. Non è certo facile riassumere in poche parole il lavoro di Freud sulla religione e neanche mi proverò a farlo. Vorrei soltanto illustrare ciò che ho capito di una parte di esso: mi riferisco al mito creato dal fondatore della psicanalisi, quello dell’’orda selvaggia’. Freud pensava di aver trovato un livello profondo, primordiale della storia psichica dell’uomo, quasi a riproporre nell’ambito della sua ricerca teorie analoghe a quelle evolutive di Charles Darwin. Secondo lui durante la crescita della coscienza umana dev’esserci stato un momento in cui la società di tipo tribale era sottomessa ad un capo, ad un progenitore rispetto al quale nessuno poteva rivendicare la propria autonomia – particolarmente i suoi stessi figli in quanto maschi sessualmente rivali. Tuttavia lo sviluppo psichico – ipotizza Freud – è passato attraverso una rivoluzione quando i figli si sono ribellati e, uccidendo il padre, hanno permesso la liberazione individuale di forze, idee, comportamenti differenziati in seno al gruppo dell’’orda selvaggia’. Nonostante questo affrancamento dall’autorità, però, l’episodio dell’uccisione del padre-atavico sarebbe rimasto nell’uomo come un fatto doloroso, problematico, sotto certi aspetti fortemente conflittuale, tale da essere rimosso e relegato nell’inconscio. Questo contenuto rimosso, secondo Freud, affiora nella religione, generando immagini della divinità – Dio, Padre, Signore – atte a sostituire la figura del progenitore, insieme al timore e al desiderio di blandire la schiacciante responsabilità dell’uccisione attraverso riti, preghiere, comportamenti etici ed altro. In parole povere alla base della religione ci sarebbe un insopprimibile senso di colpa, rispetto al quale gli uomini avrebbero ancora oggi un atteggiamento infantile o comunque non consapevole. Fatte tutte le riserve del caso, cioè le possibili e legittime contestazioni a questa interpretazione troppo legata all’epoca di Freud e ad una cultura occidentale da un lato d’impronta materialista e dall’altro giudaico-cristiana, personalmente mi sembra che Tobi, come viene descritto in questo secondo capitolo, possa in qualche modo ricordarla: infatti la sua pietas, per certi versi così estrema, desta dubbi perfino nella sua stessa moglie e viene da chiedersi da cosa possa originare. E’ davvero necessario per lo sviluppo di un sincero spirito religioso quella specie di dolorosa ritualità che spinge a inumare i corpi dei defunti della propria etnia (non necessariamente gli altri) a qualsiasi costo e in ogni situazione? Che porta a non credere di poter ricevere in dono un capretto, forse reputando sé stesso o la propria consorte indegni? Che porta ad una meticolosa valutazione del dare, del ricevere, del donare, del partecipare, come se si temesse continuamente di infrangere la legge divina o di diventare impuri per una qualche forma di contaminazione, oppure come se si volesse assiduamente cercare di espiare le colpe degli avi? Il legame edipico primario, inoltre, cioè i legami di sangue, familiari, non sono per Tobi mai sciolti o allentati, non evolvono, ma soltanto nei parenti cerca aiuto, sostegno, espiazione, comprensione, soltanto con essi può sopportare il carico delle persecuzioni, la colpa, l’esilio, la separazione e tutte le altre angosce di cui è satura l’esistenza. La mia ipotesi sulla causa della cecità di Tobi, dunque, è questa: nonostante la correttezza e la sua caparbietà talvolta coraggiosa, onesta, egli non vede al di là della rigida osservanza della norma. Dico questo perché non posso credere che le prove cui la vita ci sottopone, le difficoltà, accadano per caso oppure per una sorta di arbitrio della divinità, bensì abbiano lo scopo preciso di aprire la mente, il cuore, di aiutarci a crescere: quanto accade al nostro protagonista ha un senso preciso. Anche prendendo su di sé il carico delle colpe che ci derivano dal passato – quelle delle nostre trascorse esistenze, per Legge karmica – non è del tutto giustificato un atteggiamento che permane costantemente nell’oppressione, nella contrizione: Paramahansa Yogananda diceva che rispetto alla divinità non dobbiamo essere come dei mendicanti, bensì come dei principi, perché siamo ‘figli di Dio’. Nel buddismo c’è la pratica del sange, cioè del pentimento. Consiste nel rendersi conto, nel prendere coscienza, di aver oscurato in qualche modo la luce interiore, il principio d’Illuminazione che è presente nella nostra vita, impoverendo la nostra esistenza e costringendola in una situazione di sofferenza – che può anche essere legata alla nostra responsabilità verso gli altri. Dopo aver chiesto scusa a sé stessi, al nostro ‘vero io’, agli altri e alla vita, si riparte, si ricomincia cercando di eliminare l’errore che – comunque – già comincia a dissolversi proprio perché se ne è presa consapevolezza. Sange è un momento di riappropriazione della speranza, in cui ci si sente alleggeriti anche se ci si assume un faticoso impegno di auto-riforma, in cui si percepisce la libertà e la bellezza dell’esistenza. Forse è questo, per lo meno a mio modo di vedere, che manca a Tobi: la felicità. La pratica religiosa non è soltanto pesantezza, colpa, pentimento, espiazione. Essenzialmente è gioia di vivere. Possono esserci momenti difficili, ma senza quella gioia manca l’essenza della nostra comunicazione con il tutto, con l’universo, con Dio. Un punto centrale di questo capitolo è rappresentato dalla festività delle sette settimane: 7x7, un numero bellissimo, dai grandi e molteplici significati esoterici. Eppure questa celebrazione, presumibilmente un culmine di luce dopo la Pasqua di liberazione, fallisce. Manca qualcosa. Si cade nell’oscurità. E qui sta la cecità di Tobi.

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