lunedì, novembre 14, 2005

Tobia - capitolo 4


In questo capitolo Tobi, ricordando di aver chiesto al Signore di poter morire, si rende conto che – in vista dell’imminente probabile trapasso – è suo preciso dovere preoccuparsi dell’eredità da lasciare al suo successore come guida della famiglia, il figlio Tobia. Tale eredità si compone sia di beni materiali, i valori affidati a Gabael, che di precetti e norme etiche volte alla preservazione dell’integrità personale e del clan: dalle regole relative alla cura – anche funebre - dei genitori, al servizio da rendere al Signore, al matrimonio, ai rapporti fra datore di lavoro e subordinato, alle elemosine, ad altre cautele di tipo etico. Questa trasmissione di norme è particolarmente collegata con l’identità ‘tribale’ – dove la famiglia sembra essere soltanto una specifica dell’appartenenza collettiva al clan e l’individuo soltanto un componente della famiglia – con la totale dipendenza da quello che può essere definito l’antenato mitico, psicologicamente identificabile con il totem, cioè ‘il Signore’. Dal punto di vista analitico, secondo me, riveste un notevole interesse il complesso di regole matrimoniali cui Tobi accenna, che sono qui strettamente endogamiche: il matrimonio, cioè, dev’essere stabilito sempre all’interno del gruppo, con l’esclusione di ogni tipo di estraneità. Questo è un punto controverso, in quanto è incerto – anche in base alle ricerche condotte da Freud – se le comunità tribali prediligano questo tipo di unione oppure siano più orientate verso l’esogamìa, come invece ritiene il fondatore della psicanalisi. Secondo lui la scelta della sposa - o dello sposo - in popolazioni diverse da quella di appartenenza è connessa con la sublimazione degli impulsi incestuosi, e rappresenterebbe un passo avanti nella storia della sviluppo della individualità consapevole e indipendente dal gruppo. L’atteggiamento della ‘tribù di Neftali’ nell’epoca descritta dal testo, quindi, apparterrebbe ad una fase precedente, in cui prevarebbe l’impulso primordiale all’unione con i consanguinei. Al caso in esame, naturalmente, possono attribuirsi motivazioni di ordine pratico e logico: si tratta di gruppi comunitari perseguitati, esiliati, per i quali non è semplice né consigliabile accoppiarsi con i non appartenenti all’etnia originaria, primariamente per necessità di sopravvivenza e di protezione. Tuttavia, al di là di questo tipo di spiegazioni, non si può non riconoscere in questa tendenza endogamica una componente narcisistica dove l’io non è ancora ben differenziato individualmente, ma si riconnette all’identità collettiva: cosa confermata anche dalle restrizioni alimentari e comportamentali presenti nella storia di Tobi, sempre volte a ridurre al minimo i contatti e le situazioni debitorie o di qualsiasi compartecipazione con gli estranei, con i pagani, al fine di riconfermare continuamente l’appartenenza al gruppo sociale. Anche il senso di colpa totemico - che per Freud è in relazione con il peccato originale dell’assassinio del padre arcaico – è una sorta di collante di questa società primitiva, che contribuisce a mantenerla coesa e ben differenziata da altri gruppi etnici, conferendole identità, norme, riconoscibilità, sicurezza. L’identificazione collettiva, in realtà, sopravvive ancora nella nostra società, di solito nei comportamenti distruttivi di massa: nella fusione affettiva di una collettività – per la gran parte facente leva su meccanismi regressivi della coscienza – con un simbolo, un capo, una divinità, un partito di qualsiasi genere, insomma un totem – si perdono (anche solo momentaneamente) quelle che sono le più evolute acquisizioni della consapevolezza individuale, dell’etica, della ragione, del rispetto per la diversità, della libertà. In linea generale, dunque, possiamo riscontrare nella struttura sociale del Libro di Tobia sia un residuo della cultura matriarcale consistente nei citati impulsi endogamici - quindi appartenenti ad una fase narcisistica connotata da forte legame edipico con la madre (la collettività) - sia una componente patriarcale, dove la figura mitica del padre conferisce, rinforzata dal senso di colpa, regole, struttura, proibizioni, osservanze - espresse ritualmente secondo Freud anche nella circoncisione ebraica, cioè in una castrazione simbolica ad opera del Super-io. La ‘castrazione’, comunque, sarebbe ampiamente ripagata dall’appartenenza all’identità del gruppo e dall’’approvazione’ della temuta figura del padre totemico.

Queste considerazioni di tendenza psicanalitica sono opera di un ‘profano’ come me in questa disciplina: possono contenere errori, imperfezioni interpretative e non rispettare il rigore della dottrina freudiana cui si ispirano; tuttavia Freud stesso contribuì ad applicare quello che lui considerava un sistema d’indagine medico e scientifico al di fuori del ristretto ambito terapeutico, scrivendo saggi su argomenti antropologici, sociali, filosofici, religiosi e culturali, e aprendo la via alla divulgazione delle sue idee e alla loro applicazione ai campi più disparati. Non mi sento, dunque, ‘in colpa’ rispetto al padre della psicanalisi!

Da ciò, anzi, ricavo ulteriori considerazioni su Tobi e Tobia: nel buddismo esiste la cosiddetta trasmissione della Legge, dove un maestro lascia in eredità al discepolo il suo corpus dottrinario che, nella fattispecie di questa religione, non è soltanto un insieme teorico, ma soprattutto il risultato delle proprie sperimentazioni; si dice infatti che i Sutra (insegnamenti) vadano letti con la propria vita, cioè non operando una distinzione fra conoscenza ed esperienza concreta, ma dedicando ad essi tutto il proprio essere – senza arbitrarie separazioni fra mente e corpo. Un maestro, in altre parole, non è chi possiede la sapienza, bensì chi vive concretamente l’insegnamento. Tobi - tralasciando le considerazioni analitiche già espresse, che pure hanno secondo me la loro importanza - mi sembra sostanzialmente in linea con questo concetto: nell’episodio in esame egli svolge la funzione del maestro, suggerendo a Tobia l’essenza della propria esperienza e della propria concreta comprensione dell’esistenza. Per questo motivo i suoi consigli risultano pratici, funzionali alla vita quotidiana, ai relativi doveri e particolarità, e indicano la saggezza indispensabile nell’affrontarne le situazioni. Soprattutto Tobi collega continuamente le strategie positive, sociali, pragmatiche – certamente indispensabili, ma anche limitate - con l’elemento spirituale, divino, con la Legge Mistica che sta in profondità rispetto al mondo transitorio dei fenomeni e delle contingenze, e che ne costituisce il fondamento essenziale per la vera riuscita e la vera felicità.
L’insegnamento dei maestri, però, non dovrebbe essere pedissequamente seguito dai discepoli, magari privilegiandone la lettera e l’aspetto legalistico, oserei dire burocratico, e perdendone così di vista il senso liberatorio, volto allo sviluppo di una individualità indipendente e capace - come si afferma nel buddismo - di alzarsi da sola. C’è un discorso del Buddha Shakyamuni molto illuminante a questo proposito. E’ contenuto nell’antico canone Pali (Anguttara Nikaya III, vii, 65, Kesamutti Sutta, iii, IX) e dice:

“Non credete a tutto ciò che si dice e a tutto ciò che è stato tramandato dalle generazioni passate, e neppure a ciò che è opinione corrente o che dicono i testi sacri. Non accettate qualcosa come vera semplicemente basandovi su una deduzione o su un’illazione, sull’apparenza esteriore o sulla parzialità di una certa prospettiva, o in base alla sua plausibilità o perché il vostro maestro vi dice che è così. Ma quando voi, da soli, direttamente riconoscete: ‘Questi principi non sono benefici, sono biasimevoli, condannati dai saggi, se adottati e messi in pratica producono danno e sofferenza’, allora li dovete abbandonare. E quando da soli, direttamente, riconoscete: ‘Questi principi sono benefici, non biasimevoli, lodati dai saggi, se adottati e messi in pratica conducono al benessere e alla felicità’, allora li dovete accettare e mettere in pratica.”

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